Piero
ricorda ancora la fuga per sfuggire dalla persecuzione. Aveva cinque
anni, alle sue spalle la dittatura che ucciderà tredici parenti, davanti
a sé un muro di filo spinato, la durezza della guardia di confine e
l’angoscia estrema di suo padre: “se non ci fate passare – Piero ha
ancora presenti alla memoria le parole disperate del papà – mi do fuoco
con tutta la mia famiglia”. Piero è Piero Dello Strologo, 81 anni,
presidente del Centro culturale Primo Levi e voce autorevole in città.
Lunedì a una sala gremita di giovani ha raccontato la sua storia, quella
di un bambino ebreo genovese che si scoprì “diverso” e poi “nemico” per
il suo stesso Paese: poi la fuga e la vita da rifugiato in Svizzera,
mentre sul popolo ebraico si abbatteva la violenza omicida della Shoah.
“Di tante volte che ho portato la mia testimonianza – ha spiegato –
questa è quella che mi commuove di più, perché lo faccio accanto a un
giovane che oggi vive un’esperienza simile alla mia”. Con lui, infatti,
c’era Yaya Kongyra, giovane gambiano perseguitato dalla dittatura a
causa della sua attività politica. Anche il suo è il racconto di un
viaggio della speranza: il deserto, le violenze in Libia, la paura sul
barcone nel Mediterraneo e poi l'incontro con la Guardia Costiera
italiana e l'apprensione nell'attesa della risposta alla richiesta
d'asilo politico. Ascoltare questi racconti è un'esperienza di memoria e
di costruzione di una cultura condivisa. Aiuta a comprendere la storia
per non lasciarsi ammaliare dalle sirene del populismo volgare che
propone soluzioni facili a problemi complessi. Ma, soprattutto, aiuta
ciascuno di noi – forse la prima generazione europea a non aver vissuto
un conflitto – a comprendere che cos’è veramente la guerra, proprio in
un tempo che sembra riabilitare l’idea dell’intervento armato come
soluzione praticabile alle tensioni globali. Quel bambino di
settant’anni fa e questo giovane africano mostrano con la loro vita che
la guerra è la più grande di tutte le povertà e, come diceva papa
Giovanni Paolo II “un’avventura senza ritorno”. In una società che
ambisce a definirsi smart, ma in cui tutto è virtuale, siamo grati ai
testimoni del dolore, perché ci fanno il dono prezioso di
un'intelligenza della vita e della storia.
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