Ricordare la Shoah per costruire una società accogliente

di Sergio Casali

Piero ricorda ancora la fuga per sfuggire dalla persecuzione. Aveva cinque anni, alle sue spalle la dittatura che ucciderà tredici parenti, davanti a sé un muro di filo spinato, la durezza della guardia di confine e l’angoscia estrema di suo padre: “se non ci fate passare – Piero ha ancora presenti alla memoria le parole disperate del papà – mi do fuoco con tutta la mia famiglia”. Piero è Piero Dello Strologo, 81 anni, presidente del Centro culturale Primo Levi e voce autorevole in città. Lunedì a una sala gremita di giovani ha raccontato la sua storia, quella di un bambino ebreo genovese che si scoprì “diverso” e poi “nemico” per il suo stesso Paese: poi la fuga e la vita da rifugiato in Svizzera, mentre sul popolo ebraico si abbatteva la violenza omicida della Shoah. “Di tante volte che ho portato la mia testimonianza – ha spiegato – questa è quella che mi commuove di più, perché lo faccio accanto a un giovane che oggi vive un’esperienza simile alla mia”. Con lui, infatti, c’era Yaya Kongyra, giovane gambiano perseguitato dalla dittatura a causa della sua attività politica. Anche il suo è il racconto di un viaggio della speranza: il deserto, le violenze in Libia, la paura sul barcone nel Mediterraneo e poi l'incontro con la Guardia Costiera italiana e l'apprensione nell'attesa della risposta alla richiesta d'asilo politico. Ascoltare questi racconti è un'esperienza di memoria e di costruzione di una cultura condivisa. Aiuta a comprendere la storia per non lasciarsi ammaliare dalle sirene del populismo volgare che propone soluzioni facili a problemi complessi. Ma, soprattutto, aiuta ciascuno di noi – forse la prima generazione europea a non aver vissuto un conflitto – a comprendere che cos’è veramente la guerra, proprio in un tempo che sembra riabilitare l’idea dell’intervento armato come soluzione praticabile alle tensioni globali. Quel bambino di settant’anni fa e questo giovane africano mostrano con la loro vita che la guerra è la più grande di tutte le povertà e, come diceva papa Giovanni Paolo II “un’avventura senza ritorno”. In una società che ambisce a definirsi smart, ma in cui tutto è virtuale, siamo grati ai testimoni del dolore, perché ci fanno il dono prezioso di un'intelligenza della vita e della storia.


Da "Il Secolo XIX"

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